Pensieri



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martedì 26 aprile 2016

"La Partita di Calcio che entusiasmò i tedeschi": il coinvolgente ed affascinante racconto del dott. Michele Montagano internato di Guerra nell’Oflag 83 di Wietzendorf (dal febbraio 1945 "ospite" nel campo di "rieducazione al lavoro" di Unterluss).

Il Quotidiano del Molise
del 06 novembre 2010


di Paolo Giordano

Campobassso 22 ottobre 2010, a causa di un mio “disguido ricettivo” sono in ritardo all’appuntamento di circa 30 minuti. Arrivo trafelato ed aspetto di incontrare un austero signore che, dopo avermi squadrato dall’alto in basso, mi rimbrotti: “Ragazzo mio, non ci siamo, la puntualità nell’uomo è tutto!”.
Invece il dott. Michele Montagano è un giovanotto classe 1921, busto eretto, viso sorridente, sguardo luminoso e desideroso ancora di conoscere e scoprire, al pari di un adolescente.
Eppure l’ex volontario universitario, ufficiale di complemento degli alpini, presidente vicario nazionale dell’A.N.R.P (Associazione Nazionale Reduci della Prigionia) e Presidente Regionale Molise dell’A.N.M.I.G. (Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di Guerra), precipitò letteralmente all’inferno dal 1943 al 1945!
La sua narrazione è fluida e coinvolgente. Non disdegna né la frase dialettale, né la battuta da raffinato umorista, è insomma un oratore nato.
E’ per me un onore averlo conosciuto e poterne ascoltare le memorie. Nel suo racconto non c’è rancore alcuno, né odio, neppure per i suoi aguzzini:

il dott. Michele Montagano  
“La cartolina di precetto giunse ai nati nel 1921 prima di quelli del 1920. Restammo stupiti, ma non più di tanto, sapevamo che la Patria aveva bisogno di noi!
Iniziai la guerra in Grecia, il paese che avevamo invaso. Quando sfilavamo per le strade dei centri ellenici le vecchiette, vestite di nero e con i grembiuli stretti ai fianchi, mi facevano pensare alle nostre nonne in Molise. La sensazione era molto strana: sembrava proprio di aver occupato casa nostra.
Nel 1943 ero in forza alla Guardia di Frontiera prestando servizio in Slovenia. Oramai noi ufficiali avevamo compreso che l’Italia non poteva più continuare una lotta divenuta impari. Quando ci giunse l’ordine di controllare i movimenti dei tedeschi capimmo che si era all’epilogo. Fu allora che, per la prima volta in vita mia, bestemmiai: era la sconfitta e dovevamo accettarla!
Più volte mi è stato chiesto se, quando fu proclamato l’armistizio, ci fossimo sentiti abbandonati dal nostro Re. Mentirei se dicessi che la resa si poteva evitare. Non era più possibile continuare a combattere, non avevamo più i mezzi per farlo! Il re doveva a tutti i costi salvare lo Stato e la corona. Probabilmente ha sbagliato il modo, ma sicuramente ha ottenuto il risultato.
Comunque con la caduta di Mussolini, nel luglio 1943, era apparsa chiara la fine di  un’epoca…la nostra. Con quella seduta del Gran Consiglio il fascismo si era suicidato. Fino a quel giorno in Italia tutto era infarcito di fascismo! I maestri vestivano la camicia nera, i preti salutavano romanamente ed in ogni casa c’era il quadro del duce (fermo restando le tante eccezioni). La forte propaganda del regime aveva allevato una generazione entusiasta, animata da certezze, pronta ad un’obbedienza cieca ed assoluta. Però sarebbe più corretto dire che eravamo mussoliniani, affascinati dal carisma del capo e da ciò che le sue scelte socio-politiche ci avevano lasciato credere. Penso sia giusto ammettere che eravamo pervasi non tanto da sentimenti patriottici, quanto da una strana forma di nazionalismo che nasceva anche dal nostro campanilismo di provincia.
Insomma quel che temevamo da mesi si concretizzò nel settembre 1943.
I tedeschi erano ben armati e mal disposti verso gli ex alleati, che giudicavano, a tutti gli effetti, dei traditori.
il tenente Montagano
Non eravamo assolutamente in condizioni di combattere. Ingaggiare scontri a fuoco significava farsi trucidare. In quel frangente un ufficiale non può mandare al macello i suoi uomini. Con che diritto potevamo decidere per i soldati a noi affidati? Il nostro compito era di salvare le loro vite… gli atti di eroismo gli avremmo poi compiuti singolarmente, rispondendo in prima persona delle nostre scelte e con la nostra vita.
A Gradisca d’Isonzo  fummo catturati da truppe della  Wermacht.
Il mio “tour” a spese del “Reich” si è svolto in svariati campi di prigionia ed uno dei primi fu Sieldce in Polonia. Eravamo una cinquantina di ufficiali, rinchiusi in più baracche. Quando ci portavano all’esterno, per la conta giornaliera, cercavamo di proteggerci dal freddo con i logori vestiti e con stracci recuperati qua e là. Lo scopo di tale operazione non era di verificare se fossimo ancora tutti presenti, quanto di debilitarci ed avvilirci, trattenendoci ore ed ore alle intemperie. Bisognava stremarci e demoralizzarci affinché accettassimo di aderire alla costituenda Repubblica Sociale Italiana. Il primo giorno di tempo buono ci liberammo dagli indumenti in eccesso ed alla luce del sole potemmo finalmente vedere i prigionieri delle altre baracche, che fino ad allora erano stati solo delle sagome indistinte. Fu in quel momento che ebbi modo di riconoscere amici e compagni di studi, tra cui Carletto Garambois, che era già una stella del calcio campobassano. Egli era nato a Villar Perosa, la sua famiglia si era trasferita a Campobasso seguendo il padre,  giunto in Molise per lavoro. Con Carletto mi ritrovai ancora a condividere “l’ospitalita germanica” a Sandbostel nei pressi di Brema.
La Convenzione di Ginevra stabiliva che i soldati prigionieri lavorassero, guadagnandosi il rancio, mentre agli ufficiali era riservato un trattamento di privilegio che li esimeva dal lavoro. Ai militari italiani furono riservati i lavori più umili e duri, sempre per il totale disprezzo che i tedeschi nutrivano verso di noi, ma per il profondo rispetto che portavano allo spirito di casta militare la “Convenzione” veniva applicata per i graduati.
Agli ufficiali I.M.I. (Internati Militari Italiani), quindi, venivano concessi degli “svaghi” attraverso l’uso di strumenti musicali o palloni.  Per questo fu possibile organizzare un torneo di calcio tra squadre di varie regioni. Nella compagine Abruzzo-Molise giocava Carletto Garambois. Non rammento chi fosse l’avversario, ma ricordo che vincemmo realizzando 6 o 7 gol. I nostri carcerieri si lasciarono coinvolgere ammirando quel ragazzo lacero che, pur se gravemente debilitato dalle privazioni della prigionia, correva, calciava, dribblava, segnava… giocando con classe e passione.
- Un altro episodio che mi preme rammentare è l’incontro con mio padre.
Ero ancora a Sieldce. Per un fortuito caso lessi la rivista di propaganda fascista “La voce della Patria”. In essa vi era una rubrica di “ricerche” e scoprii che mio padre, capitano del regio esercito, chiedeva notizie di suo figlio Michele. La gioia di appurare che era ancora vivo fu immensa. Stranamente mi fu concesso di recarmi nel campo di Biala Podlaska per incontrarlo. Quello che sembrava un atto di pietà era una subdola strategia, speravano che io aderissi alla nascente repubblica fascista.
A Biala su circa 2500 “ospiti” solo 147 non avevano accettato le proposte tedesche. Mio padre, fascista, era tra gli “aderenti”. Sicuramente oltre alla scelta ideologica ce n’era una profondamente umana: egli aveva -di fatto- adottato tre nipoti, miei cugini, rimasti orfani di madre. Essi vivevano a casa nostra ed il ritorno del capofamiglia in Italia significava una garanzia per mia madre e per i mie fratelli.
la "prigionia" in un disegno di Guareschi
Quando arrivai al campo compresi che si sperava in una mia adesione o forse che il mio genitore potesse, con il suo ascendente, indurmi a cambiare idea. In realtà stava per verificarsi l’esatto contrario: pur di non separarsi da me  il Capitano Angelo Montagano era disposto ad un ripensamento. Una sera ci incamminammo silenziosi verso il comando tedesco. Lo trovammo chiuso! Compresi la sua intenzione e gli dissi “nella nostra famiglia basta solo un eroe”. Rispettavo e comprendevo la sua scelta e lui doveva fare altrettanto. Però, ribadii che non avrei mai mosso per i tedeschi nemmeno una “spingula” (spilla). Papà Angelo comprese e sorrise. “Fortunatamente” non ebbi la sventura di combattere contro mio padre.. quante volte ho pensato con terrore all’eventualità di trovarmelo di fronte in battaglia. Il buon Dio ha voluto che ci rincontrassimo a guerra finita, nella nostra terra insieme alla nostra adorata famiglia.
- Passavano i mesi e peggiorava progressivamente la nostra situazione. Quotidianamente venivamo sottoposti a sevizie fisiche e torture morali, sempre allo scopo di farci aderire a Salò.
Continuammo a rifiutare tenacemente per fedeltà al giuramento ed alla divisa, per ragioni etiche, ideologiche e politiche. Eravamo totalmente soli con noi stessi, ce ne infischiavamo sia di Mussolini che del Re: dovevamo rispondere esclusivamente alla nostra coscienza!
Coloro che erano di autentica fede fascista avevano sottoscritto immediatamente, poi avevano ceduto i più deboli, lusingati dalla libertà e da un miglioramento delle condizioni di vita.
Io ed altri 500 mila I.M.I. continuammo a dire “NO”.
Contrariamente alle altre vittime dei nazisti -gli Ebrei su tutti- noi Italiani potevamo scegliere.
Michele Montagano
L’Ebreo era la vittima innocente di un odio inumano, mentre noi eravamo dei soldati. Il Soldato sa che il suo futuro potrebbe riservargli sofferenza e morte. La nostra era una prigionia “volontaria”, deliberatamente accettata per salvare l’onore. In quei  19 mesi ci siamo ripetuti ogni giorno  “io lo voglio”, continuando a scegliere tra una libertà disonorevole e la permanenza nei lager, soffrendo la fame, ma salvaguardando la nostra dignità di Ufficiali. Nessuno ci pensa mai, ma non è secondario il fatto che distoglievamo i nostri carcerieri dal fronte militare. Che siano stati centinaia o migliaia poco importa… combattevamo così la nostra guerra.
Con il passare del tempo alcuni di noi si piegarono, accettando di lavorare, impegnandosi “cavallerescamente” a non fuggire, ma senza giurare fedeltà alla repubblica di Mussolini.
La scelta era finalizzata sia ad alleviare la dura vita dei campi di prigionia e sia a poter contattare altre persone, ricevendone un beneficio psicologico ed anche fisico: sarebbero riusciti a raggranellare qualche cosa da mangiare, per integrare la pessima “dieta” a cui erano sottoposti. Anche questo comportamento, però, era percepito come un tradimento da noialtri, che continuavamo a dire “NO”.
Con l’accordo Hitler-Mussolini, del 20 luglio 1944, sulla smilitarizzazione e civilizzazione degli I.M.I., venimmo equiparati a liberi lavoratori civili. Era come se ci fossimo trasferiti volontariamente in Germania. L’esito del conflitto peggiorava ed il fronte si avvicinava al cuore del paese: si doveva utilizzare tutta la forza lavoro disponibile per sostenere l’industria, le miniere, l’agricoltura e per sgomberare le macerie causate dai bombardamenti.
Il 16 febbraio 1945 i 214 ufficiali, presenti nell’Oflag 83 di Wietzendorf, si rifiutarono in blocco di lavorare. I tedeschi ne scelsero 21 e fu comunicato ai compagni che “non li avrebbero più rivisti”. Allora altri 44 si offrirono al loro posto e tra questi c’ero anch’io! Per 9 interminabili ore ci tennero ”al muro”. Mentre attendevamo il verdetto, martoriati dalla pioggia e dal vento invernale, io pensavo alla “mia morte eroica”. Avrei gridato “Viva l’Italia” al pari dei Martiri di Belfiore.
Fummo invece condannati al carcere a vita: pena da scontare nel campo di “rieducazione al lavoro” di Unterluss!
Nella seconda settimana dell’aprile 1945 il comando tedesco ordinò di eliminare ogni traccia dello Straflager: gli “alleati” erano oramai alle porte… Decisero di rilasciarci fornendoci un lasciapassare, quali lavoratori liberi, e ci riconsegnarono (grottesca precisione teutonica) i pochi e poveri averi confiscati nel giorno di ingresso. Durante queste operazioni ci fu però chiesto di gridare “Heil Hitler!” Ancora una volta, l’ultima volta, dopo aver raccolto le poche forze rimastemi, e con tono deciso, risposi “Nein!”
Fui percosso fino a svenirne!
Quando ripresi conoscenza ebbi la certezza di essere risuscitato da un vero e proprio girone dantesco. Ero finalmente libero e potevo tornare al mio paese ed ai miei affetti. Non immaginavo cosa mi aspettasse, eppure mi consolava e spronava la consapevolezza di non aver ceduto. Ero riuscito a restare coerente fino alla fine… sapevo di averlo fatto anche per coloro che non erano sopravvissuti a quegli atroci mesi di segregazione.”

"Così si conclude il racconto di Michele Montagano. Quanto trascritto è solo una minima parte di quel tragico ed interminabile periodo.
Oltre a tanti anonimi compagni di sventura il nostro narratore ebbe modo di condividere le sue angosce con personaggi che hanno “fatto la Storia”: Lazzati (il santo), Rebora (il poeta), Natta (il politico), Tedeschi (l’attore), Novello (il pittore) e Giovannino Guareschi. Questi nel 1957 tornò nei luoghi in cui era stato prigioniero. Sul suo viaggio di “ritorno” scrisse un servizio a puntate sul “Candido”, che divenne -poi- il libro “Ritorno alla Base”.
Il “giovanotto classe 1921” da Casacalenda non ama parlare di sé. Si schernisce e non vuole assolutamente le luci della ribalta, ma confido che voglia raccogliere le sue storie in un opera da lasciare ai posteri.
Vorrei rivolgergli questo invito, però me ne vergogno… tentenno e, quindi, perdo l’attimo fuggente per il mio suggerimento.

Infatti, dopo avermi affabilmente salutato, egli si allontana con un passo spedito da bersagliere, scomparendo dietro l’angolo.

Apparentemente sono rimasto solo con i miei pensieri. In realtà ho in mio possesso una ricchezza senza eguali: alcune delle memorie di un uomo veramente straordinario." 

sabato 16 aprile 2016