Pensieri



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mercoledì 19 ottobre 2016

IL LABIRINTO CAERDROIA DI PETRELLA TIFERNIANA: Lo studioso Mario Ziccardi si fa onore al Premio Nazionale Cronache dal Mistero

Il Quotidiano del Molise
del 05/12/2015

di Paolo Giordano

   La cerimonia sarà ospitata nel Residence "Traiano Imperatore" (a pochi metri dal sito archeologico della villa di Traiano) in Altipiani di Arcinazzo (Arcinazzo Romano - RM). Detto "Premio" nasce prevalentemente dalla partnership tra l'Associazione socio-culturale Italia Mia di Roma, l'Associazione Promedia, la PerlaWebTV ed il sito www.ilpuntosulmistero.it, con il patrocinio del Comune di Trevi nel Lazio. L'evento intende riconoscere il merito di ricercatori, scrittori, editori, registi, giornalisti ed altre figure professionali impegnate da anni nella trattazione di argomenti che spesso sfuggono all'interesse dei media o vengono trattati senza il necessario approfondimento.
   L'obiettivo prefissato è quello di accrescere l'interesse e la diffusione di notizie su materie particolari quali archeologia, misteri della storia, megalitismo, fenomeni di esopolitica ed ufologia.
Mario Ziccardi
   I premiati sono stati selezionati da un'apposita Commissione, coordinata e diretta dello scrittore Giancarlo Pavat. Tra gli studiosi insigniti del riconoscimento anche il Campobassano Mario Ziccardi per la scoperta (nel 2014) del Labirinto “Caerdroia” nella chiesa di S. Giorgio aPetrella Tifernina (CB).

   Nell'affascinate monumento identitario del paese molisano, edificato tra la fine del XII secolo e gli inizi del XIII secolo, sono presenti tantissimi simboli, molti dei quali riconducibili al repertorio mitico e pagano. Sulla prima colonna di sinistra, a circa un metro e mezzo dal pavimento, è inciso un labirinto del tipo “caerdroia” (dal gallese Caer Troia, latino Troia Nova. Nome originario di Londra secondo una leggenda che la vorrebbe fondate -come Albalonga- da un esule troiano di nome Bruto), unicursale a mano sinistra con undici corridoi nella parte superiore dal centro. La particolarità più interessante è la parte inferiore rettilinea, caratteristica propria di questa tipologia. Allo stato attuale esso è, per la sua particolare forma, un esemplare decisamente unico ed insolito in Italia. 
Labirinto Caerdroia
   La sua realizzazione fu sicuramente eseguita in accordo con l'autorità ecclesiastica ed è lo stesso Ziccardi a fornircene una spiegazione: "La rigenerazione potrebbe essere il filo di Ariannache fa percepire l’importanza di questa figura nel medioevo. In ambienti sacri la simbologia era fondamentale per la conoscenza da parte degli illetterati dei fondamenti della dottrina cristiana. Il labirinto, pertanto, poteva significare il viaggio del pellegrino verso Gerusalemme: il fedele, percorrendo in ginocchio tale percorso pavimentale, realizzato in diversi e particolari edifici sacri, compiva un vero e proprio pellegrinaggio di purificazione. Nel caso di Petrella, inoltre, si ha una sola "direzione" da seguire. Ciò potrebbe simboleggiare la vita del cristiano il quale, attraverso un'unica Via, giunge alla salvezza della propria anima".


La "Mezza Canna" in via Cannaviana (già via Borgo) a Campobasso

Il Quotidiano del Molise
del 10/07/2010


di Paolo Giordano

   Se come nelle fiabe gli oggetti parlassero, chi sa quanto potrebbe raccontare l’apparentemente insignificante barra di ferro murata in via Cannavina al civico 7.
   In realtà si presenta da sola: su di essa è scritto “mezza canna”.
   Era l’unità di misura di riferimento per il mercato di Campobasso inserita in Porta Borgo, anche detta Porta San Leonardo.
   Di questa struttura oltre ad essere ancora visibile, all’interno di una vetrina, l’emiciclo di un torrazzo esistono i due stemmi un tempo incastonati nell’architrave.
   Il più antico è quello del Conte Cola, l’altro è della città di Campobasso, ed oggi sono entrambi conservati nell’atrio del Municipio.
   L’Albino, nato nel 1827, ebbe modo di vederla personalmente e la descrive come “assai ben decorata e di corretto stile architettonico”.
   Porta San Leonardo, che era l’accesso principale al nucleo fortificato, fu distrutta nel 1836 ed utilizzata dai cittadini quale “cava” di pietra per costruire.
   A detta del Mancini era “più grande e bella delle altre”.
   L’attraversò Ferrante II Gonzaga, signore di Campobasso, nel 1584 e nel 1588 insieme alla moglie, la principessa Vittoria Doria, e la loro figlia Zenobia.
   In una lunetta della Banca d’Italia il pittore Nicola Biondi ha immortalato l’ingresso di un altro Gonzaga, Ferrante I, ma non si hanno documenti certi di una sua visita in città.
   Solo la mezza canna potrebbe dirimere ogni dubbio e narrarci questa ed altre vicende epiche, o semplici storie quotidiane, a cui lei stessa ha assistito in tanti secoli.
   Troppo banale concludere questa divagazione con la solita lamentosa constatazione sullo stato di abbandono delle memorie storiche cittadine.

   Si vuole, invece, credere che un’Amministrazione, un Ente, un imprenditore illuminato o un’Associazione commissionerà una targa che illustri ai passanti cosa rappresenti quell’apparentemente insignificante barra di ferro.

martedì 16 agosto 2016

Il mistero della tomba di Delicata Civerra. La presunta sepoltura (scomparsa) dell'eroina campobassana


IL MISTERO DELLA TOMBA DI DELICATA CIVERRA

Il Quotidiano del Molise
del 31 marzo 2016

di Paolo Giordano

Delicata Civerra è indubbiamente tra i personaggi simbolo della Storia di Campobasso. 
la chiesa di San Giorgio
in una foto inizio 1900
Negli archivi parrocchiali si trovano più dame così "nomate". La nostra eroina mori nel 1587 e molti raccontano di aver consultato il "libro della Chiesa di San Giorgio" (con le annotazioni dei defunti dal 1541 al 1711) che la citerebbe. Una verifica non è allo stato delle cose possibile, poiché la sorte dell'antico manoscritto non è riscontrabile.
Lo studioso Uberto D'Andrea scrive di clamorose omonimie: attraverso un atto del 1587 si apprende delle messe che Delicata Civerra faceva celebrare in memoria del defunto marito, Giacomo Caruso. Ed ancora... nel libro dei battezzati di Santa Maria Maggiore (anno 1590) fu registrato il battesimo di Delicata, figlia di Francesco Civerra e Diana Di Lembo.
Quindi tale nome era abbastanza diffuso e ciò, comunque, non può che deporre a favore del fatto che possa essere veramente vissuta la giovane campobassana, protagonista della nota romantica vicenda. Di sicuro il dato importante, che coinvolge ogni categoria di studiosi aprendo uno spaccato sulla Storia Locale, è che il contrastato amore tra Fonzo e Delicata riconduce alle lotte tra le due maggiori confraternite (Crociati e Trinitari) per il controllo socio-politico della Campobasso tardo cinquecentesca.
Pur essendo inevitabile un parallelismo con Montecchi e Capuleti, va evidenziato che, mentre Giulietta e Romeo, personaggi di pura invenzione totalmente decontestualizzati, sono stati eletti nel globo terraqueo quali emblemi dell'Amore Infelice, minor fortuna hanno avuto i nostri due amanti.
Ulteriore, e non ultimo, spunto di riflessione si è avuto domenica 27 marzo, Santa Pasqua! Un nutrito gruppo di turisti provenienti da Monopoli, nel visitare la chiesa di San Giorgio Martire, era alla improduttiva ricerca di quello che sarebbe potuto essere il sepolcro di Delicata Civerra. Li aveva incuriositi la guida cartacea che consultavano, la quale ne parlava... come ne "parla" abbondantemente internet (e non solo in italiano) in diversi siti, molti dei quali istituzionali.
La "tomba di Delicata Civerra"
in una foto del 1982
Ma prima del web due sono le prime più importanti ed autorevoli testimonianze di quella sepoltura. Giambattista Masciotta nel II volume de "IL MOLISE dalle origini ai nostri giorni" (1915) nel descrivere la chiesa di San Giorgio annota "L'interno è diviso in tre navi, in una delle quali (quella di destra) sorge la modesta (sic) tomba di Delicata Civerra". L'arciprete Nicola Tarantino, nel suo "Il gran Martire S. Giorgio" (1926) riporta "Degno pure di essere ammirato il Cristo scolpito in pietra sulla tomba di Delicata Cìverra, nobile fanciulla di Campobasso..."
E' legittimo porsi l'ineluttabile domanda: dov'è finita la presunta sepoltura?
Prova ne resta una fortuita fotografia scattata nel 1982. Il parroco del tempo, il compianto don Giovanni Battista, confermò la versione del Tarantino. Trattavasi, appunto, di un bassorilievo con un' "imago pietatis", contemplazione della Passione, utilizzata su altari, paliotti e tombe (generalmente sovrapporta).
Dopo i restauri degli anni 80/90 del 1900, la chiesa romanica di San Giorgio (unitamente a quella di San Bartolomeo) fu restituita alla Città di Campobasso, ma nessuna traccia v'era più della lapide che ancor oggi viene ricordata come la tomba della giovane sventurata fanciulla, morta per amore.

Insomma... un'ennesima vestigia del Nostro Passato si sarebbe dissolta nell'oblio!

"NOI CHE PER FARE IL MARE ANDAVAMO IN COLONIA" di Vittoria Todisco. Ricordi ancora vivi e scatti inediti di un giovanissimo Pierluigi Giorgio


"NOI CHE PER FARE IL MARE ANDAVAMO IN COLONIA"

Il Quotidiano del Molise
del 14 agosto 2016
di Vittoria Todisco

Noi venuti al mondo negli anni ’40 per “fare il mare” andavamo in colonia.
colonie marine anni '40-'50
Adesso arrivano in spiaggia ad orario comodo e non fanno a tempo a spogliarsi che hanno già fame. Le mamme tirano fuori da enormi borse griffate spicchi di pizza che trasudano olio. Loro, i ragazzini venuti al mondo dal 2000 in poi, le divorano senza staccare gli occhi dal telefonino di ultima generazione che maneggiano con navigata abilità. Il mare manco guardano di che colore è. L’altoparlante diffonde un suono di percussione sempre uguale, un rumore interrotto e, se si è particolarmente sensibili, si avverte un’accelerazione dei battiti cardiaci che nulla hanno in comune con l’emozione che la musica dovrebbe procurare. Dove sono andate a finire le canzoni dell’estate: “Una rotonda sul mare” e, se non proprio “A Saint Tropez”, almeno “Vamos a la plaja”. Questi ragazzini che sfoggiano capigliatura da mohicani sono la nostra discendenza, i nostri nipoti, i figli dei nostri figli, ma tra noi e loro, c’è una distanza abissale che è inutile cercare di impegnarsi a colmare.
Sono stati tanti i figli nati nel primo dopoguerra che hanno fatto la colonia marina: il mare e il sole erano l’antitesi alla tubercolosi molto presente in tutta Europa che mieteva vittime soprattutto tra i bambini. Nate verso la fine dell’800 la loro realizzazione venne affidata ai più insigni architetti dell’epoca; una risorsa che si intensifica ancor più nel periodo fascista rendendole anche luogo di propaganda e costruzione dell’uomo nuovo voluto dal regime: forte nel fisico un po’ meno nell’intelletto. Nel dopoguerra caduto il fascismo si ritenne che le colonie fossero ancor di più una buona iniziativa per sostenere le famiglie meno agiate e offrire a bambini e ragazzi un periodo di 30 giorni l’anno di sole, mare ed attività fisica e ludica. Dal 1948 al 1952 i figli del proletariato d’estate partivano per la colonia. Chi scrive ha vissuto questa esperienza per ben tre stagioni: due volte a Termoli, la terza sobbarcandosi un interminabile viaggio in treno, a Senigallia, nelle Marche.


Per noi bambini il viaggio in treno rappresentava una novità, un’avventura che iniziava già prima della partenza. Ci radunavano tutti alla Gil. Le nostre mamme ci salutavano lasciandoci in lacrime e digiuni agli addetti alla struttura. Interminabile, ci pareva il viaggio in treno e, quando dai finestrini si cominciava a scorgere il mare l’emozione era tantissima. Le onde bianche e spumose che si frangevano sulla riva venivano chiamate cavalloni ed entravano in un gergo nuovo anche la nostra fantasia galoppava immaginando di poter vivere avventure temerarie e sconosciute nelle quali il vento, il sole e il mare fossero le uniche forze della natura a farci compagnia. 
A Termoli eravamo ospitati nella scuola elementare. Le aule erano state trasformate in dormitori, ci avevano consegnato un pagliaccetto a quadretti bianchi e rosa, maglietta bianca e cappellino, scarpe con la suola di corda.
Ciascuna squadra aveva la sua vigilatrice: giovani insegnanti o aspiranti tali spesso costrette a far le veci della mamma. Ricordo ancora la direttrice del primo anno, 1949. Certo non ricordo quasi nulla del suo aspetto, del resto era quella una figura distante da noi bambini. Ricordo che pativamo la fame, il cibo era scarso e l’obbligo ad irrobustire i nostri gracilissimi fisici era affidato al sole e al mare. Perché questa direttrice mi è rimasta nella memoria? Perché ci obbligava recitare ogni giorno estenuanti orazioni. Una mattina ci svegliarono che non era ancora sorto il sole.
Non capivamo cose stesse accadendo e dopo averci fatte vestire alla svelta ci condussero in stazione dove poco dopo giunse il treno bianco per Lourdes che si fermò sul binario mentre noi in fila cantavamo Evviva Maria.
L’ultimo giorno di colonia la direttrice volle salutarci, ci radunano nel corridoio del primo piano dell’edificio e la conclusione del suo lungo discorso per noi in-comprensibile penetrò bene nella mia mente giacché rivelò l’indole e l’aspirazione di questa donna alla quale erano state affidate centinaia di creature: addio bambine sono sicura che non ci vedremo più ma certamente ci incontreremo in Paradiso.
L’anno successivo mi consideravo una veterana e facevo forza su me stessa per non farmi prendere trop-po dalla nostalgia che soprattutto di sera, come succede anche ai naviganti: intenerisce il core. Eravamo intruppate come piccole soldatesse e andando e tornando dal mare sotto il sole cocente doveva- mo cantare per attestare vitalità e buon umore.
Son marinaio marinar della marina tengo le chiavi dell’oro dell’argento son marinaio di questo basti- mento finché l’Italia più libera sarà. In spiaggia ci radunavano tutte sotto una copertura di cannucce e si giocava alle cinque pietre, un gioco di destrezza ed abilità nel muover le mani e far saltare cinque pietre. Il vitto, rispetto all’anno precedente, era migliorato. Ma una volta nell’edificio ci sentivamo in  carcere  mentre dal- l’esterno ci giungevano le voci dell’estate termolese alla quale eravamo estranee, neanche spettatrici giacché i vetri delle finestre erano  schermati con una odiosissima carta azzurrina. Un’ala dell’edificio affacciava su un cinema all’aperto e alla sera con le finestre del bagno aperte ci si addormentava con la voce di Amedeo Nazzari o quella vellutata di Tina Lattanzi, doppiatrice di Greta Garbo e di molte altre attrici straniere, ed era un po’ come ave- re accanto la mamma e il papà.
Pierluigi Giorgio e la madre
Quell’anno la direttrice era bella, attenta e severa, a detta delle vigilatrici. Aveva con se il figlioletto, un bambino biondo e vivace che le vigilatrici faceva a gara a spupazzarsi. Noi sentivamo un po’ di invidia per quel piccolino che aveva la fortuna di stare con la sua mamma. Guardavamo quei riccioletti biondi da cherubino, la rotondità delle guance paffute e ci cat-turava la sua risata argentina piena di una gioia che nasceva da un gioco appe-na concluso o che stava per iniziare.
Noi tutte, eravamo coscienziose della necessità di quel soggiorno estivo che però rappresentava un doloroso  strappo con la nostra casa e le piccole quotidiane abitudini ma avvertivamo la responsabilità di un sacrificio che avrebbe dovuto giovarci e facevamo nostro l’obbligo di comportarci da donnine consce che altrettanta nostalgia veniva sofferta dal- le nostre famiglie.
Pierluigi Giorgio
In colonia non ricordo di aver allacciato amicizie tra le mie coetanee, a parte quelle che già conoscevo. 

Stranamente però, l’unico al quale sono ancora oggi legata da affetto, amicizia e rispetto è proprio quel bambino biondo verso il quale ho per la prima volta provato un sentimento odioso qual è l’invidia. Egli risponde al nome di Pierluigi Giorgio.


domenica 14 agosto 2016

"RICICLO" il grido degli artisti. Donatella di Lallo, Justine Casertano, Simona D'Alessandro ed Antonio Della Porta in Mostra nella sala AXA di Campobasso


"RICICLO" il grido degli artisti!!!

Il Quotidiano del Molise
del 22 marzo 2012
di Paolo Giordano

Ancora una volta la Palladino Company ha aperto le sue porte all’arte e, questa volta, lo ha fatto con un intento altamente educativo. Non è una scoperta il nostro vivere in un’epoca di sfrenato consumismo, totalmente sommersi dalle immondizie soprattutto per la crescente produzione di rifiuti, eccessiva rispetto alle capacità di smaltimento. Inoltre bisogna tristemente prende atto che la Comunità Europea ha diffidato il Molise poiché dal 2009 non ha “fatto passi in avanti” nella raccolta differenziata. Dal 17 marzo nella sala AXA con la collettiva “Riciclo” quattro artisti molisani lanciano il grido d’allarme attraverso una proposta costruttiva ed affascinante. Arte ed artigianato si fondono in un elegante connubio che guarda al futuro attingendo alla Tradizione. 
Con riuso e riutilizzo si “producono” opere/oggetti belli e soprattutto di uso quotidiano. Però a dispetto del titolo provocatorio della mostra bisogna precisare che non si tratta semplicemente di “riciclare” bensì di “creare”. Pezzi di vetro e bottiglie in plastica (pvc) diventano eleganti monili e raffinati gioielli nelle mani della notissima Justine Casertano. Famosi i suoi
un "piatto" di Justine Casertano
meravigliosi piatti decorati con colori e disegni in stile personalissimo. Pezzi unici come, del resto, quelli degli altri espositori. Gioie ed accessori nascono dalle mani di Antonio Della Porta. 
una "sedia" di
Donatella di Lallo
Tra le materie prime utilizzate ci sono intonaci, laterizi e sanitari dismessi. Il Della Porta è specializzato nella lavorazione della ceramica ed ha brevettato una tecnica con cui il cotto viene ricostruito a freddo.
Nell’era dei giornali telematici dà soddisfazione constatare che il caro vecchio quotidiano cartaceo, dopo esser stato letto, ancora ha molto da dare e dire. Donatella Di Lallo e Simona D’Alessandro, in modi differenti, utilizzano la carta stampata. La prima, celebre per le “sculture comode”, manipolando la cartapesta genera sedie e mobilio (usando come scheletro anche vecchie suppellettili), plasma ciotole, bracciali e tanto altro in tinte dalle tonalità calde e vivaci. La D’Alessandro, invece, intrecciando giornali realizza svuota tasche, oggettistica per ufficio/studio, elementi d’arredo e -soprattutto- borse e borselli i cui accessori sono materiali di recupero: freni di bicicletta, cinghie di motori, tubi per acquario. Le pagine stesse delle riviste adoperate fungono da artistici decori. E se piove? Ci ha confessato l’autrice che: “una volta mi si è rovesciata una bottiglia d’acqua nella borsa… ancora la uso tranquillamente”.
La mostra, patrocinata dalla Provincia di Campobasso, sarà visitabile fino al 27 marzo però chi era all’inaugurazione ha potuto apprezzare i canti di Mariella Brindisi e Mario Mancini: due ricercatori, che hanno raccolto la tradizione orale dei canti popolari della valle del Fortore. Un tesoro destinato a scomparire ed invece preservato da un duro lavoro a suo modo “di recupero e riutilizzo”.
Gradevole e simpatica la conclusione con un buffet quanto mai originale: "tarallucci" e vino!
Un ironico menù gustato con estremo piacere dal folto pubblico intervenuto


un'opera di Donatella di Lallo



"La fortuna creativa nel simbolismo magico". Donatella di Lallo attraverso le sue opere, riciclando,evoca atmosfere di terre lonatane


"La fortuna creativa nel simbolismo magico".  
Donatella di Lallo, riciclando, 
 attraverso le sue opere evoca atmosfere di terre lonatane

Il Quotidiano del Molise
del 02/04/2011
di Paolo Giordano

“La fortuna creativa nel simbolismo magico” è il “titolo” della mostra di Donatella di Lallo visitabile dal 2 al 15 aprile presso la Palladino Company di Campobasso. In esposizione alcune sculture che l’occhio razionale degli adulti vedrà semplicemente come oggetti di cartapesta. Ma il “fanciullino” (dimorante in ognuno) percepirà la magia sprigionata da un mondo fantastico. Non si tratta di semplici sedie, bensì di autentici troni sontuosamente ornati e degni di mitici sovrani.
L’autrice impasta, modella, domina la cartapesta con abilità, inventiva e creatività. Ha alle sue spalle una trentennale esperienza artistica che, partendo da pregevoli quadri “classici” sia nello stile che nei soggetti, è giunta alle “maschere”, per approdare -un domani- a chi sa quali sconosciuti nuovi lidi. Donatella con molta umiltà ha sempre evitato le luci della ribalta, eppure ha un curriculum di tutto rispetto. In Molise ha esposto a Guardialfiera (2000), Torella del Sannio (2009), Oratino e Pesche (2010). A Campobasso è stata accolta dal Circolo Sannitico (1990) e dai Grandi Magazzini Teatrali (2009). Ma anche Zagabria (1989), Merano, Bolzano, Foggia (1998) e Viterbo
(2006) hanno ospitato le sue creazioni. Decine di quotidiani, periodici e riviste specializzate d’arte ed arredamento hanno trattato della sua produzione ed ha all’attivo il catalogo della personale “Sculture Comode” (2009). Le sue creature rimandano immediatamente all’arte etnica. I colori vivaci richiamano le musicalità latino-americane. L’aura sprigionata trasporta nelle realtà oniriche di Lewis Carroll, il padre di Alice nel paese delle meraviglie.
D’obbligo, in considerazione dei materiali di recupero utilizzati, un accenno alla “riciclarte” con la sua valenza sociale. Infine non è secondario l’essere al cospetto di stupendi e funzionali elementi di arredo per dimore di ogni genere.
Magistralmente, e con la dovuta competenza, è lo studioso Antonio Picariello ad accompagnare per i sentieri del variegato “paese delle meraviglie” di Donatella…”Queste opere propongono l’Italia come dimora aperta all’arte del pianeta intero e permettono alla staticità del corpo terrestre di poter danzare e lievitare  nella forma aurea dei cromatismi ornamentali carichi di simbolismi della natura a modello comparativo con le architetture ornamentali delle nostre pietrificate cattedrali medievali. È la ricerca della  forma fortunata dell’istinto architettonico  che l’artista  trasforma in gioco visivo, capace di scatenare passione giocosa nello sguardo dei bambini e degli adulti attraverso un sotteso riporto codificato ad altre civiltà lontane nel cuore e nella topologia dalla canonica affezione occidentale. Forse poetica relativamente  etnica,  ma certamente molto più avanzate nel pensiero animista dell’imponente statuaria e imbalsamata vocazione espressiva dettata dalla civiltà industriale di questo galleggiante
Occidente. Il cuore meridionale dell’Italia si risveglia senza fatica divorando colori e simboli inconsci che quest’arte pre-freudiana e post-junghiana getta ai cuori di chi vuole ritornare nel gioco bello del guardare e del sentire il pianeta. Una grande sedia colorata dove poggiano i sorrisi delle maschere intrise di spiritualità feconda.”
Il pregio basilare della vulcanica campobassana è, comunque, una sana ironia! In lei non c’è alcuna pretesa didattica né l’intento di lanciare messaggi epocali socio-filosofico-culturali per i posteri. La sua Essenza è positiva, solare. Ama visceralmente la Natura ed il genere umano. Chi ha le capacità e la professionalità per farlo coglierà, decifrerà e diffonderà quel che i suoi manufatti comunicano. Lo spettatore dovrà solo ascoltare i racconti narrati dalle sculture di cartapesta, spogliandosi da ogni tipo di sovrastruttura e mettendo a nudo il proprio animo. Seguendo, quindi, l’invito dell’artista stessa nell’esplorazione di “mondi lontani miliardi di anni luce, per tuffarsi con un brivido nel non-conosciuto, arrivando fino in fondo e riemergendo dopo aver toccato le corde più oscure e insieme più luminose di un mondo che galleggia, acqueo e pericoloso, nel profondo dell’anima. Usando il proprio coraggio per arrivare proprio là dove si teme, per scoprire quanti innumerevoli ed insospettabili mondi albergano dentro le risonanze moltiplicantesi dell’anima, come grotte comunicanti in cui suoni ed echi sciolti nel colore si mescolano e si rincorrono.”
Ma al di la di tutto interverranno, entusiastici, tantissimi fanciulli….dai quattro agli ottant’anni!

Donatella di Lallo e la Castellana: come trasformare un "rudere" in dimora.


Donatella di Lallo e la Castellana
come trasformare un "rudere" in dimora.

di Paolo Giordano

Il Quotidiano del Molise
06 ottobre 2010
La Castellana è una delle contrade alla porte di Campobasso.
E’ di fatto associata a Polese, infatti  a quest’ultima si fa riferimento ai fini della residenza, ma si estende su un colle a sè stante. 
Prende il nome da un antica costruzione, che come un castello domina da una radura le vallate sottostanti. Il toponimo si riferisce alla proprietaria di questo edificio, il cui nucleo più antico è costituito da un “torrione” del 1700 a pianta rettangolare. L’insediamento iniziale è sicuramente precedente, poiché le denominazioni dell’hinterland campobassano risalgono al periodo che va dal XV al XVII secolo.
In considerazione delle potenzialità strategiche del sito non è da escludere che si trattasse di una rocca d’avvistamento o di un vero e proprio feudo.
Con il trascorrere degli anni, sia per l’intervento umano e sia per cause naturali, è completamente scomparsa ogni traccia del passato, ma la struttura è stata trasformata in un’elegante dimora munita di portale e corte.
Completamente immersa in una lussureggiante vegetazione è ulteriormente valorizzata dalla salubrità dell’aria. Per il piccolo maniero, a causa dei processi di urbanizzazione che sono alla base dell’abbandono degli insediamenti rurali, era incominciato un periodo di degrado accelerato da costanti atti vandalici.
Mescolando la cruda realtà al mondo delle favole vien facile sognare che, per uno strano gioco del Fato, alcuni luoghi permeati di vita propria obbligatoriamente incrocino la loro storia con quella di persone “sui generis”. E chi è maggiormente deputata ad essere protagonista di una fiaba se non un’artista?
"La Castellana" portale
Donatella di Lallo e “la Castellana” si incontrarono verso la metà degli anni ottanta e fu subito amore a prima vista!
L’attuale filosofia di vita vuole che si demolisca ogni vetusto manufatto, per realizzare dei nuovi impersonali fabbricati. Contro ogni logica corrente la di Lallo, con perseveranza e caparbietà, ha lavorato negli anni ad un lento e graduale recupero di quella che poi è diventata la sua abitazione. E non importa quanto tempo sia trascorso prima di renderla vivibile. Tanto ancora c’è da realizzare, ma il gusto, la cura del particolare, il rispetto per le architetture hanno riportato all’originaria bellezza l’antica casa in pietra. Ma se il fortilizio in miniatura è tornato a risplendere lo deve alla passione profusa ed al coinvolgimento emotivo che non sono assolutamente comprensibili per l’ “homo economicus”.
Come inizia ad accadere in più parti d’Italia, si dovrebbe incentivare il restauro del “vecchio”,  invece di rilasciare un’infinità di nuove concessioni, a seguito delle quali vengono fagocitati senza pietà numerosi spazi verdi.
In contrada Polese l’antica torre, ritenuta da alcuni una colombaia o addirittura un granaio, un tempo testimonianza di fatiscenza, oggi è la bandiera di una rinascita. Nei progetti dei proprietari è ardentemente vivo il desiderio di trasformala in una biblioteca, dove raccogliere le centinaia di volumi in loro possesso.
In tutta sincerità non si potrebbe immaginare altrove l’atelier di questa poliedrica creativa e non si può pensare ad una Castellana che non abbia le fattezze di Donatella.


La Castellana



mercoledì 6 luglio 2016

Il fascino di una passeggiata nel Borgo Antico di Campobasso tra letteratura e presenze leggendarie: il mascherone di Salita San Bartolomeo

Il Quotidiano del Molise
del 05 agosto 2015


di Paolo Giordano

“Come è piacevole e melanconico passeggiare fra quelle parlanti mura, allorché il sole che scende all’occaso le indora, con i suoi morenti raggi! E quando raccolto in te stesso siedi su  uno di quei sassi, i pensieri volano ai tempi che furono, a quei tempi nei quali colà tutto era vita, moto, destrezza, valentia e coraggio”. In tal modo nel 1910 il giornalista, storico e ricercatore Alfonso Perrella esprimeva le sue intime sensazioni nel passeggiare sulla sommità “della collina Monforte”.
IL MASCHERONE
(foto Mario Ziccardi)
Ancor oggi, in alcune giornate dalla luce particolarmente irreale, è oltremodo ritemprante per lo spirito aggirarsi nelle stradine del Borgo Antico, oramai quasi del tutto deserte, percependo ancora l’eco lontana dei  suoni, dei rumori e degli schiamazzi di chi le abitò nei tempi passati.
Prediletta compagnia è la memoria dei vari letterati che nei secoli studiarono le antiche vestigia, percorrendo chiassi e viuzze. Si percepiscono nettamente le “ombre” di Gasdia, Padre Eduardo,Uberto D’Andrea e tante altre gradevoli presenze: dame, fate, cavalieri e gnomi… dalla Civerra a Mazzamauriello.
Improvvisamente forte è la sensazione di essere osservati proprio da una di queste “concrete” forme di vita! Ed è in uno dei vicoli nei pressi della chiesa di San Bartolomeo che fantasia e realtà si fondono in maniera quasi indiscindibile.
Un volto curioso e grottesco ci osserva… apparentemente in maniera malevole. Ma non è un genietto malvagio che ci scruta da circa tre metri di altezza, bensì uno stravagante elemento architettonico tardo settecentesco in terracotta. Per darne esatta e dettagliata descrizione utilizziamo una scheda tecnica pubblicata di recente dallo studioso Mario Ziccardi:
interno dell'elemento architettonico
(foto Mario Ziccardi)
“Questo particolare elemento architettonico si presenta come un semicilindro sporgente dal muro con una forma tubolare a gomito in corrispondenza del mento. Indagando all’interno si rivela come un solido cavo con il fondo piatto; è il terminale di una conduttura proveniente dal tetto o dall’interno della casa e serviva principalmente per raccogliere e convogliare l’acqua, assolvendo le funzioni dei famosi doccioni medievali, infatti la caratteristica principale è il suo aspetto mostruoso. Si credeva che demoni o esseri maligni potevano entrare in casa minacciando gli occupanti e questo punto poteva essere vulnerabile poiché forniva un accesso diretto alla dimora. Il suo aspetto mostruoso e grottesco serviva a tenere lontani gli elementi negativi e malvagi proteggendo la casa e i suoi abitanti.”
Un “nume tutelare” allora e non un malvagio essere… ma soprattutto un’ennesima importante testimonianza del passato, sopravvissuta alla furia iconoclasta degli ultimi decenni.
E mentre “il sole scende all’occaso indorando, con i suoi morenti raggi” le mura delle antiche case… la Città vecchia ancora ci regala piccole scoperte ed affascinati storie.


mercoledì 1 giugno 2016

In un quadro di Amedeo Trivisonno la rivelazione del destino di Padre Pio.


Il Quotidiano del Molise
del 30 maggio 2016
di Paolo Giordano

Nella “Stanza di Padre Pio”, annessa alla Chiesa di Santa Maria del Monte a Campobasso, è esposto un olio su tela opera di Amedeo Trivisonno. Il quadro del 1972, San Pio era morto da soli 4 anni, testimonia la presenza del Frate a Campobasso nel 1905. Come scrive Corrado Carano, nel suo libro “Sognando il Rinascimento”, si tratterebbe di un episodio inedito della vita del Santo: in questo Santuario mariano la Vergine, apparsa a padre Pio, lo avrebbe invitato a seguire Gesù sulla via del Calvario.
Ma autentico profondo conoscitore dell’argomento è Alberindo Grimani, esperto d’arte, autore di importanti libri e, soprattutto, poliedrico studioso in svariati campi. Tra i suoi interessi di ricerca vi è -appunto- Francesco Forgione da Pietrelcina, per cui proprio al Grimani, autore di un dettagliato articolo dal titolo “il segreto di Padre Pio” (pubblicato on line da “Pagine 70” poco più di 10 anni orsono) poniamo alcune domande per provare a scoprire “cosa nasconde” il capolavoro di Trivisonno.

Grimani, Trivisonno, Paglione (1986)
Come nasce il quadro conservato a Campobasso?
Padre Pellegrino da Sant’Elia a Pianisi era a conoscenza del segreto di Padre Pio, cioè quale “missione” a Lui era stata affidata.
I Santi non vengono per caso!
Qual è il mistero che l’opera contiene? Può parlarcene?
La missione di Padre Pio era “unica ed irripetibile”. Consideri che nel 1905 quando ne venne a conoscenza, a Padre Pio venne solo indicata l’oggetto ma non il contenuto che conoscerà soltanto nel 1913.

Perché si sarebbe scelto di non svelare il “segreto”?
Era terribile ed il Sant’Uffizio nel 1922 per volontà di Pio XI lo fece secretare.

Secondo lei perché le autorità locali, ecclesiastiche ed amministrative, non hanno mai
“pubblicizzato”, pur se con differenti obiettivi, questa appassionante e spiritualmente importantissima vicenda?
Non saprei rispondere. Comprendo il riserbo delle autorità religiose ma non quello degli amministratori locali. Tempo fa avevo proposto un progetto per valorizzare le località del Molise ove Padre Pio aveva vissuto anche per poco tempo: Sant’Elia a Pianisi, Campobasso, Casacalenda, Venafro, Larino, etc. ma gli amministratori ed i politici nostrani hanno rifiutato.

Nelle sue “Memorie” Trivisonno racconta, in rima, l’evento e descrive il dipinto nei suoi particolari. Precedentemente, comunque, si era confidato a riguardo con l’allievo Paglione…
Giusto, ma l’Artista nelle “Memorie” non dice più dell’essenziale. Trivisonno aveva confidato a Paglione l’incarico ricevuto da Padre Pellegrino ma non il segreto che neppure lui conosceva. Il dipinto è criptico e si basa sulle indicazioni suggerite da Padre Pellegrino. Trivisonno era riluttante ad accettare l’incarico ma Padre Pellegrino lo convinse con la famosa frase: Sarai il pittore di Padre Pio!”.
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E' oramai prossima l'uscita un suo libro sull'argomento. Nell'attesa non ci regalerebbe una piccola anticipazione?
“L’Enigma di Campobasso” è il libro che spero di far pubblicare entro il prossimo settembre. Chi lo leggerà avendo davanti agli occhi il dipinto di Trivisonno scoprirà che in quell’opera c’è il segreto di Padre Pio. Quello che Padre Pellegrino ha voluto far conoscere è un evento eccezionale che forse mai sarebbe venuto alla luce.
Senza rompere l’obbligo della “Obbedienza”, imposto a tutti i frati Cappuccini che ne erano venuti a conoscenza, di non svelare il segreto, ha dato a Trivisonno le indicazioni utili a scoprirlo.
In quell’opera ai Monti di Campobasso c’è quello che ho chiamato “un evento eccezionale”: la missione di Padre Pio ed il Terzo segreto di Fatima hanno l’identico messaggio!





1972: IL SEGRETO DI PADRE PIO, di Alberindo Grimani (da pagine 70)


1972: il segreto di Padre Pio


di Alberindo Grimani


Nel 1971, fine di luglio-principi d'agosto, Padre Pellegrino da Sant'Elia a Pianisi si incontrò con il Pittore Amedeo Trivisonno nel Santuario di S. Maria del Monte di Campobasso. L'Artista era andato a rendere omaggio alla Madonna, della quale era, come tutti i campobassani, fedele devoto, ed anche per controllare lo stato degli affreschi della Chiesa da lui dipinti.
Padre Pellegrino, all'epoca Guardiano del Convento Cappuccino di S. Maria del Monte (aveva lasciato l'incarico di Guardiano di San Giovanni Rotondo nel settembre 1970), era famoso in tutto il mondo dal 23 settembre 1968: nelle ore precedenti la morte di Padre Pio, gli era stato accanto sino alla fine terrena, raccogliendo le Sue ultime preghiere e benedizioni. Per i devoti del Santo, Padre Pellegrino rimase sempre "il discepolo preferito" di Padre Pio; "l'Angelo della notte" che per anni aveva vegliato sul Padre nelle ore notturne e accudito come un figlio fa col genitore infermo; il Frate che aveva raccolto le confessioni, le confidenze più intime e, alla fine, il testamento spirituale di Padre Pio. 
Padre Pellegrino e Trivisonno, che erano anche amici, si incontrarono, dunque, al Santuario del Monte. Il Cappuccino disse al Pittore più o meno queste parole: "Amedeo, in questo Santuario la Madonna è apparsa a Padre Pio più volte! Devi fare un quadro per ricordare l'apparizione più importante: quella in cui Padre Pio accettò di essere 'l'Alter Christus!".
Trivisonno, stupito dalle confidenze ricevute, cercò di sottrarsi in tutti i modi dall'incarico proposto; ma, alla fine, cedette alle insistenze di Padre Pellegrino e, nel settembre del 1971, si mise all'opera. Dopo vari studi, l'opera "L'apparizione della Madonna del Monte a Padre Pio" fu completata nel maggio del 1972 e, quindi, dopo un succedersi di vicende, spedita a Campobasso e sistemata nel Santuario mariano.
Questo dipinto di Amedeo Trivisonno, eseguito a Firenze dove l'Artista risiedeva, è stato sempre trascurato e poche volte citato nelle biografie di Padre Pio. I motivi sono tanti, nascosti negli archivi segreti ed inaccessibili vaticani, ancora oggi chiusi agli studiosi del Santo.
Dopo anni di studi e ricerche sulla vita di Padre Pio, è certo che al Frate, tra il 1904 e il 1909, nel Santuario Mariano di Campobasso, siano apparsi più volte Gesù e Maria e a Lui affidati tanti messaggi per la Chiesa e l'umanità. Apparizioni e messaggi secretati dal 1922 e sugli stessi posta una pietra tombale. Soprattutto i messaggi della Madonna a Padre Pio.
Il "segreto di Padre Pio" è nel Santuario di S. Maria del Monte: lo confidò nel 1971 Padre Pellegrino da Sant'Elia a Pianisi ad Amedeo Trivisonno e gli consegnò la chiave che l'Artista nascose nel dipinto. Il 15 agosto 1905, giorno dell'Assunzione di Maria al Cielo, Padre Pio accettò di essere "l'alter Christus".
Il 15 agosto 2005 sarà il Centenario di quell'Apparizione della Madonna a Padre Pio. Sarebbe giusto, in questo momento così tragico per il mondo, rivelare e svelare i messaggi della Madonna del Monte a Padre Pio.

*** Nell'immagine in alto, il dipinto.
Amedeo Trivisonno, 1972: L’Apparizione della Madonna del Monte a Padre Pio (Santuario della Madonna del Monte – Campobasso)

Per PAGINE 70 - Alberindo Grimani 10 agosto 2005



martedì 26 aprile 2016

"La Partita di Calcio che entusiasmò i tedeschi": il coinvolgente ed affascinante racconto del dott. Michele Montagano internato di Guerra nell’Oflag 83 di Wietzendorf (dal febbraio 1945 "ospite" nel campo di "rieducazione al lavoro" di Unterluss).

Il Quotidiano del Molise
del 06 novembre 2010


di Paolo Giordano

Campobassso 22 ottobre 2010, a causa di un mio “disguido ricettivo” sono in ritardo all’appuntamento di circa 30 minuti. Arrivo trafelato ed aspetto di incontrare un austero signore che, dopo avermi squadrato dall’alto in basso, mi rimbrotti: “Ragazzo mio, non ci siamo, la puntualità nell’uomo è tutto!”.
Invece il dott. Michele Montagano è un giovanotto classe 1921, busto eretto, viso sorridente, sguardo luminoso e desideroso ancora di conoscere e scoprire, al pari di un adolescente.
Eppure l’ex volontario universitario, ufficiale di complemento degli alpini, presidente vicario nazionale dell’A.N.R.P (Associazione Nazionale Reduci della Prigionia) e Presidente Regionale Molise dell’A.N.M.I.G. (Associazione Nazionale fra Mutilati ed Invalidi di Guerra), precipitò letteralmente all’inferno dal 1943 al 1945!
La sua narrazione è fluida e coinvolgente. Non disdegna né la frase dialettale, né la battuta da raffinato umorista, è insomma un oratore nato.
E’ per me un onore averlo conosciuto e poterne ascoltare le memorie. Nel suo racconto non c’è rancore alcuno, né odio, neppure per i suoi aguzzini:

il dott. Michele Montagano  
“La cartolina di precetto giunse ai nati nel 1921 prima di quelli del 1920. Restammo stupiti, ma non più di tanto, sapevamo che la Patria aveva bisogno di noi!
Iniziai la guerra in Grecia, il paese che avevamo invaso. Quando sfilavamo per le strade dei centri ellenici le vecchiette, vestite di nero e con i grembiuli stretti ai fianchi, mi facevano pensare alle nostre nonne in Molise. La sensazione era molto strana: sembrava proprio di aver occupato casa nostra.
Nel 1943 ero in forza alla Guardia di Frontiera prestando servizio in Slovenia. Oramai noi ufficiali avevamo compreso che l’Italia non poteva più continuare una lotta divenuta impari. Quando ci giunse l’ordine di controllare i movimenti dei tedeschi capimmo che si era all’epilogo. Fu allora che, per la prima volta in vita mia, bestemmiai: era la sconfitta e dovevamo accettarla!
Più volte mi è stato chiesto se, quando fu proclamato l’armistizio, ci fossimo sentiti abbandonati dal nostro Re. Mentirei se dicessi che la resa si poteva evitare. Non era più possibile continuare a combattere, non avevamo più i mezzi per farlo! Il re doveva a tutti i costi salvare lo Stato e la corona. Probabilmente ha sbagliato il modo, ma sicuramente ha ottenuto il risultato.
Comunque con la caduta di Mussolini, nel luglio 1943, era apparsa chiara la fine di  un’epoca…la nostra. Con quella seduta del Gran Consiglio il fascismo si era suicidato. Fino a quel giorno in Italia tutto era infarcito di fascismo! I maestri vestivano la camicia nera, i preti salutavano romanamente ed in ogni casa c’era il quadro del duce (fermo restando le tante eccezioni). La forte propaganda del regime aveva allevato una generazione entusiasta, animata da certezze, pronta ad un’obbedienza cieca ed assoluta. Però sarebbe più corretto dire che eravamo mussoliniani, affascinati dal carisma del capo e da ciò che le sue scelte socio-politiche ci avevano lasciato credere. Penso sia giusto ammettere che eravamo pervasi non tanto da sentimenti patriottici, quanto da una strana forma di nazionalismo che nasceva anche dal nostro campanilismo di provincia.
Insomma quel che temevamo da mesi si concretizzò nel settembre 1943.
I tedeschi erano ben armati e mal disposti verso gli ex alleati, che giudicavano, a tutti gli effetti, dei traditori.
il tenente Montagano
Non eravamo assolutamente in condizioni di combattere. Ingaggiare scontri a fuoco significava farsi trucidare. In quel frangente un ufficiale non può mandare al macello i suoi uomini. Con che diritto potevamo decidere per i soldati a noi affidati? Il nostro compito era di salvare le loro vite… gli atti di eroismo gli avremmo poi compiuti singolarmente, rispondendo in prima persona delle nostre scelte e con la nostra vita.
A Gradisca d’Isonzo  fummo catturati da truppe della  Wermacht.
Il mio “tour” a spese del “Reich” si è svolto in svariati campi di prigionia ed uno dei primi fu Sieldce in Polonia. Eravamo una cinquantina di ufficiali, rinchiusi in più baracche. Quando ci portavano all’esterno, per la conta giornaliera, cercavamo di proteggerci dal freddo con i logori vestiti e con stracci recuperati qua e là. Lo scopo di tale operazione non era di verificare se fossimo ancora tutti presenti, quanto di debilitarci ed avvilirci, trattenendoci ore ed ore alle intemperie. Bisognava stremarci e demoralizzarci affinché accettassimo di aderire alla costituenda Repubblica Sociale Italiana. Il primo giorno di tempo buono ci liberammo dagli indumenti in eccesso ed alla luce del sole potemmo finalmente vedere i prigionieri delle altre baracche, che fino ad allora erano stati solo delle sagome indistinte. Fu in quel momento che ebbi modo di riconoscere amici e compagni di studi, tra cui Carletto Garambois, che era già una stella del calcio campobassano. Egli era nato a Villar Perosa, la sua famiglia si era trasferita a Campobasso seguendo il padre,  giunto in Molise per lavoro. Con Carletto mi ritrovai ancora a condividere “l’ospitalita germanica” a Sandbostel nei pressi di Brema.
La Convenzione di Ginevra stabiliva che i soldati prigionieri lavorassero, guadagnandosi il rancio, mentre agli ufficiali era riservato un trattamento di privilegio che li esimeva dal lavoro. Ai militari italiani furono riservati i lavori più umili e duri, sempre per il totale disprezzo che i tedeschi nutrivano verso di noi, ma per il profondo rispetto che portavano allo spirito di casta militare la “Convenzione” veniva applicata per i graduati.
Agli ufficiali I.M.I. (Internati Militari Italiani), quindi, venivano concessi degli “svaghi” attraverso l’uso di strumenti musicali o palloni.  Per questo fu possibile organizzare un torneo di calcio tra squadre di varie regioni. Nella compagine Abruzzo-Molise giocava Carletto Garambois. Non rammento chi fosse l’avversario, ma ricordo che vincemmo realizzando 6 o 7 gol. I nostri carcerieri si lasciarono coinvolgere ammirando quel ragazzo lacero che, pur se gravemente debilitato dalle privazioni della prigionia, correva, calciava, dribblava, segnava… giocando con classe e passione.
- Un altro episodio che mi preme rammentare è l’incontro con mio padre.
Ero ancora a Sieldce. Per un fortuito caso lessi la rivista di propaganda fascista “La voce della Patria”. In essa vi era una rubrica di “ricerche” e scoprii che mio padre, capitano del regio esercito, chiedeva notizie di suo figlio Michele. La gioia di appurare che era ancora vivo fu immensa. Stranamente mi fu concesso di recarmi nel campo di Biala Podlaska per incontrarlo. Quello che sembrava un atto di pietà era una subdola strategia, speravano che io aderissi alla nascente repubblica fascista.
A Biala su circa 2500 “ospiti” solo 147 non avevano accettato le proposte tedesche. Mio padre, fascista, era tra gli “aderenti”. Sicuramente oltre alla scelta ideologica ce n’era una profondamente umana: egli aveva -di fatto- adottato tre nipoti, miei cugini, rimasti orfani di madre. Essi vivevano a casa nostra ed il ritorno del capofamiglia in Italia significava una garanzia per mia madre e per i mie fratelli.
la "prigionia" in un disegno di Guareschi
Quando arrivai al campo compresi che si sperava in una mia adesione o forse che il mio genitore potesse, con il suo ascendente, indurmi a cambiare idea. In realtà stava per verificarsi l’esatto contrario: pur di non separarsi da me  il Capitano Angelo Montagano era disposto ad un ripensamento. Una sera ci incamminammo silenziosi verso il comando tedesco. Lo trovammo chiuso! Compresi la sua intenzione e gli dissi “nella nostra famiglia basta solo un eroe”. Rispettavo e comprendevo la sua scelta e lui doveva fare altrettanto. Però, ribadii che non avrei mai mosso per i tedeschi nemmeno una “spingula” (spilla). Papà Angelo comprese e sorrise. “Fortunatamente” non ebbi la sventura di combattere contro mio padre.. quante volte ho pensato con terrore all’eventualità di trovarmelo di fronte in battaglia. Il buon Dio ha voluto che ci rincontrassimo a guerra finita, nella nostra terra insieme alla nostra adorata famiglia.
- Passavano i mesi e peggiorava progressivamente la nostra situazione. Quotidianamente venivamo sottoposti a sevizie fisiche e torture morali, sempre allo scopo di farci aderire a Salò.
Continuammo a rifiutare tenacemente per fedeltà al giuramento ed alla divisa, per ragioni etiche, ideologiche e politiche. Eravamo totalmente soli con noi stessi, ce ne infischiavamo sia di Mussolini che del Re: dovevamo rispondere esclusivamente alla nostra coscienza!
Coloro che erano di autentica fede fascista avevano sottoscritto immediatamente, poi avevano ceduto i più deboli, lusingati dalla libertà e da un miglioramento delle condizioni di vita.
Io ed altri 500 mila I.M.I. continuammo a dire “NO”.
Contrariamente alle altre vittime dei nazisti -gli Ebrei su tutti- noi Italiani potevamo scegliere.
Michele Montagano
L’Ebreo era la vittima innocente di un odio inumano, mentre noi eravamo dei soldati. Il Soldato sa che il suo futuro potrebbe riservargli sofferenza e morte. La nostra era una prigionia “volontaria”, deliberatamente accettata per salvare l’onore. In quei  19 mesi ci siamo ripetuti ogni giorno  “io lo voglio”, continuando a scegliere tra una libertà disonorevole e la permanenza nei lager, soffrendo la fame, ma salvaguardando la nostra dignità di Ufficiali. Nessuno ci pensa mai, ma non è secondario il fatto che distoglievamo i nostri carcerieri dal fronte militare. Che siano stati centinaia o migliaia poco importa… combattevamo così la nostra guerra.
Con il passare del tempo alcuni di noi si piegarono, accettando di lavorare, impegnandosi “cavallerescamente” a non fuggire, ma senza giurare fedeltà alla repubblica di Mussolini.
La scelta era finalizzata sia ad alleviare la dura vita dei campi di prigionia e sia a poter contattare altre persone, ricevendone un beneficio psicologico ed anche fisico: sarebbero riusciti a raggranellare qualche cosa da mangiare, per integrare la pessima “dieta” a cui erano sottoposti. Anche questo comportamento, però, era percepito come un tradimento da noialtri, che continuavamo a dire “NO”.
Con l’accordo Hitler-Mussolini, del 20 luglio 1944, sulla smilitarizzazione e civilizzazione degli I.M.I., venimmo equiparati a liberi lavoratori civili. Era come se ci fossimo trasferiti volontariamente in Germania. L’esito del conflitto peggiorava ed il fronte si avvicinava al cuore del paese: si doveva utilizzare tutta la forza lavoro disponibile per sostenere l’industria, le miniere, l’agricoltura e per sgomberare le macerie causate dai bombardamenti.
Il 16 febbraio 1945 i 214 ufficiali, presenti nell’Oflag 83 di Wietzendorf, si rifiutarono in blocco di lavorare. I tedeschi ne scelsero 21 e fu comunicato ai compagni che “non li avrebbero più rivisti”. Allora altri 44 si offrirono al loro posto e tra questi c’ero anch’io! Per 9 interminabili ore ci tennero ”al muro”. Mentre attendevamo il verdetto, martoriati dalla pioggia e dal vento invernale, io pensavo alla “mia morte eroica”. Avrei gridato “Viva l’Italia” al pari dei Martiri di Belfiore.
Fummo invece condannati al carcere a vita: pena da scontare nel campo di “rieducazione al lavoro” di Unterluss!
Nella seconda settimana dell’aprile 1945 il comando tedesco ordinò di eliminare ogni traccia dello Straflager: gli “alleati” erano oramai alle porte… Decisero di rilasciarci fornendoci un lasciapassare, quali lavoratori liberi, e ci riconsegnarono (grottesca precisione teutonica) i pochi e poveri averi confiscati nel giorno di ingresso. Durante queste operazioni ci fu però chiesto di gridare “Heil Hitler!” Ancora una volta, l’ultima volta, dopo aver raccolto le poche forze rimastemi, e con tono deciso, risposi “Nein!”
Fui percosso fino a svenirne!
Quando ripresi conoscenza ebbi la certezza di essere risuscitato da un vero e proprio girone dantesco. Ero finalmente libero e potevo tornare al mio paese ed ai miei affetti. Non immaginavo cosa mi aspettasse, eppure mi consolava e spronava la consapevolezza di non aver ceduto. Ero riuscito a restare coerente fino alla fine… sapevo di averlo fatto anche per coloro che non erano sopravvissuti a quegli atroci mesi di segregazione.”

"Così si conclude il racconto di Michele Montagano. Quanto trascritto è solo una minima parte di quel tragico ed interminabile periodo.
Oltre a tanti anonimi compagni di sventura il nostro narratore ebbe modo di condividere le sue angosce con personaggi che hanno “fatto la Storia”: Lazzati (il santo), Rebora (il poeta), Natta (il politico), Tedeschi (l’attore), Novello (il pittore) e Giovannino Guareschi. Questi nel 1957 tornò nei luoghi in cui era stato prigioniero. Sul suo viaggio di “ritorno” scrisse un servizio a puntate sul “Candido”, che divenne -poi- il libro “Ritorno alla Base”.
Il “giovanotto classe 1921” da Casacalenda non ama parlare di sé. Si schernisce e non vuole assolutamente le luci della ribalta, ma confido che voglia raccogliere le sue storie in un opera da lasciare ai posteri.
Vorrei rivolgergli questo invito, però me ne vergogno… tentenno e, quindi, perdo l’attimo fuggente per il mio suggerimento.

Infatti, dopo avermi affabilmente salutato, egli si allontana con un passo spedito da bersagliere, scomparendo dietro l’angolo.

Apparentemente sono rimasto solo con i miei pensieri. In realtà ho in mio possesso una ricchezza senza eguali: alcune delle memorie di un uomo veramente straordinario."